giovedì 19 marzo 2009

" Rais, ‘i purtasse ‘nterra "

Sto finalmente leggendo un libro che per un motivo o per l'altro non riuscivo mai a leggere, Corallari, di Ninni Ravazza. Il libro è davvero fantastico e così, per ogni autore che mi appassiona, poi comincio a cercare altre informazioni e altre storie, se le ha scritte.
Sono incappato in una serie di racconti sul sito Cosedimare e tra questi, c'era questa bellissima intervista ad uno degli ultimi Rais (i capi di tonnara); per quanto ad alcuni appare cruenta, l'attività di una tonnara era fatta da gente di mare, di vera genta di mare, che mai ha mancato di rispetto all'elemento.
Spero che piaccia anche a voi:

Il rais Isidoro “Sarino” Renda, recentemente morto a 93 anni, due terzi della sua vita l'ha vissuto nella tonnara e per la tonnara, dove ha ricoperto tutti gli incarichi, dal cordaro al capobarca, per divenire rais a soli 35 anni, allora il più giovane rais del Mediterraneo.
Con lui si è chiusa la generazione dei famosi rais Renda di Bonagia, che ha annoverato il nonno, il padre ed il cugino: Isidoro “Saroro”, Salvatore, Pio, infine lui Sarino, una stirpe di rais.
Per 34 stagioni è stato il comandante assoluto di reti, tonni e uomini, fino al 1979 quando un infarto lo obbligò ad una vita più tranquilla.
Cosedimare vuole ricordare rais Sarino pubblicando lo stralcio di una lunga intervista raccolta nel 2001 da Ninni Ravazza. E’ il rais che parla …



Sono entrato in tonnara che avevo 14 anni, abbuavo, vogavo, nella muciara di mio nonno rais Saroro, a 14 anni ho preso il remo, io la gavetta ho fatto! Poi sono stato capoguardia sul “rimorchio”, avevo quattordici persone al remo, allora non ce n’erano motori!

Un giorno del 1944 Mario Fontana, uno dei padroni della tonnara di Bonagia, mi chiamò e mi disse se me la sentivo di fare il rais, avevo 35 anni, diventai il più giovane rais della Sicilia; il primo anno ho preso 600 tonni, poi 800, poi anche 1200. Nel ‘63 abbiamo preso 700 e passa tonni, grossi, erano tutti contenti, il giorno dell’Ascensione a me mi vennero a prendere a casa con la musica, la banda; nel ’64 invece la stagione fu disastrosa, acque bianche, inutile mettere lo specchio a mare, le segherie scaricavano notte e giorno, prendemmo 40 tonni ma all’ultimo, perché l’acqua inchiariu un poco, il tonno vuole le acque limpide.

Quando nel 1965 alla tonnara di Bonagia subentrò la nuova società dissi all’amministratore che dovevamo andare fuori l’orlo, a 4 mila metri da terra, su un fondale di 57 metri; i padroni dissero va bene, feci il preventivo, e lì calammo: andò bene, facemmo una mattanza di 270 tonni con una media di 318 chili l’uno, un pesce di 200 chili non c’era, ni vittimu persi! Quell’anno abbiamo fatto più di 1.700 tonni, però la zona era troppo sofferente di corrente, l’acqua era chiara, ma la rete si strappava per la corrente.

Io quando ho cominciato a fare il rais guadagnavo 14 lire al giorno e quattro parti di migghiariato, il faratico ne guadagnava 6 e aveva una parte di migghiariato; il tonno a ‘gghiotta, ogni 400 tonni il più grosso, veniva diviso a tutta la ciurma ed era uguale per tutti.

Però non ho fatto il rais solo a Bonagia, negli anni ’50 e ’60 sono stato anche nelle tonnare di Libia, quelle dei trapanesi e anche quelle dei palermitani, e una volta dovevo calare anche una tonnara in Sardegna per conto della Contessa Rigotti di Roma, che era la proprietaria di una tonnara in Libia dove avevo lavorato, ma poi ci ripensò e non si fece niente.

Quante mattanze ho fatto, a Bonagia, Sancusumano, a Tripoli! Una volta era diverso, non è come oggi che i tonni si vendono ai giapponesi e il prezzo è sempre lo stesso, prima si doveva guardare il mercato, se i pesci mancavano allora il proprietario diceva di fare mattanza così il tonno aveva un prezzo buono: Rais, ‘i purtasse ‘nterra mi dicevano la sera.

Quando ho cominciato a fare il rais la mattina si usciva dal porto che era ancora buio, non c’erano i rimorchiatori a motore, si niscìa ‘u rimo. I rimorchi avevano un equipaggio di 15 persone, un capobarca, due marinai ‘a parte e dodici faratici, ogni rimorchio aveva quattordici remi, e aveva al traino il suo parascarmo o un vascello, ma anche le barche andavano a remi in tonnara. Per arrivare all’isola della tonnara di Bonagia ci mettevamo tre quarti d’ora, però sempre a ‘bbuare, a vogare, c’era gente pratica allora.

La ciurma cominciava a lavorare i primi d’aprile; quando era tutto pronto veniva il momento di comporre gli equipaggi delle barche. Il rais chiamava tutti, e divideva la ciurma; prima si sceglieva i suoi muciaroti, poi li faceva scegliere al sottorais, poi i capibarca facìano u toccu e cu niscia si sceglìa i soi. Dopo che la ciurma era stata divisa nelle barche, ogni equipaggio si prendeva il suo capobarca in braccio e se ne andavano alla “bottega del vino”, e il capobarca pagava da bere.

Allora ogni equipaggio voleva essere il migliore, c’era sempre una gara a chi arrivava per primo, i nassaioli erano bravissimi a vogare, a volte nella prescia di arrivare le barche sbattevano una contro l’altra, oppure se ne andavano in secca sul bassofondo.

La mattina del crociato il rais usciva prima con la muciara, e a remi se ne andava in tonnara; ogni equipaggio si imbarcava sul suo rimorchio, e si pigliava al traino il parascarmo che era di legno e più piccolino di ora, tutti si ammazzavano ai remi, e chi arrivava primo sul posto si metteva a vuciare per la soddisfazione.

Quando arrivavano i primi tonni c’era ‘a campaniata; di nascosto il capomuciara veniva a terra, gli altri non lo sapevano ma se lo immaginavano, entrava nello stabilimento dalla parte di Sant’Angelo, saliva sopra la torre e suonava, Ta ta ta, ‘na bedda scampaniata, allegria!

Quando era tempo di mattanza, l’amministratore della tonnara faceva venire allo stabilimento lo scapecere, ‘u barracchere capo della ciurma di terra, i bottai, entravano tutti assieme e preparavano le attrezzature, le botti, i coltelli.

Che si poteva mattanzare noi lo sapevamo la sera prima; la mattina uscivamo che era ancora buio, sulla muciara eravamo in otto, io, un capomuciara e sei remi, appena arrivavamo guardavo se i tonni erano nella cammara: lo specchio si cominciò a usare due anni dopo che sono diventato rais, prima c’era basso fondo, i pesci si ombravano, noi non entravamo nella “camera” se non usciva il sole, c’era delicatezza, ora si usano le reti di nylon ma prima bisognava stare attenti a non spaventare i tonni, perché potevano rompere le reti di cocco e fuggire dalla tonnara.

Se tutto era a posto e la corrente era propizia, si incasteddava, si mettevano le barche a quadrato con la rete tirata sui bordi, poi il sottorais mi domandava se poteva mollare ‘a porta cannapa, se la corrente era buona gli dicevo: Modda! e lui calava la porta che immette nel corpu, poi guardava come scendeva e mi rassicurava “s’arrisittàu a porta”; a quel punto si moddava a bastardella e io pregavo “Un credu ‘u Signuri”, e tutti rispondevano “Sia laurato!”.

Solo io sapevo quanti pesci c’erano nella camera, ma una volta che le porte erano aperte dovevo dire al mio sottorais quanti pesci c’erano, perché così poteva dare l’ordine di alzare le porte quando i tonni passavano: Mommo gli dicevo, Palermo, per esempio, perché prima gli facevo segno con le mani, ma tutti mi guardavano e allora potevano capire quanti tonni c’erano, e allora col sottorais Mommo Solina, che poi è diventato rais quando mi sono ritirato, usavamo parole scelte: Trapani voleva dire 50 tonni, Palermo era 100, Castellammare 150, e Messina 200, quando erano di più gli dicevo “oltre”, e così nessuno capiva niente.

Quando le porte erano mollate io con la muciara stavo al centro della cammara, e quando vedevo i tonni andare a ponente gli gridavo “Viri chi venno a ‘ttia” e allora tutti si mettevano pronti, poi finalmente il grido dei capibarca “Levaaa, Aisa!”, i tonni erano entrati nel corpu e i pescatori li avevano chiusi, stagghiati.

Il vascello di levante era pronto fuori, sottovento, gli uomini legavano la porta sul musarzio della porta cannapa e tiravano il vascello dentro, le barche piccole si levavano e tutti salivano sul vascello, io entravo nella leva, e passando accanto al sottorais gli chiedevo “Com’è, Mommo?” e lui mi diceva se erano passati tutti o eravamo arristati anniscati, io allora entravo nel corpu e mi mettevo a guardare: ccà sunno, allora i tonnaroti cominciavano ad assummare ‘u corpu, io col capomuciara stavo ‘nto mezzu ‘a leva, e davo gli ordini: trasi ‘u vascello, tènilo ritto, agguantalo, fallo camminare dritto, se c’era corrente auta era difficile tenerlo dritto, poi quando ‘a tunnina sparava c’era una grande confusione, e allora prendevo la sassola e ci jettava acqua ‘nfaccia ‘i tonnaroti, per calmarli: ascoltate a me, tu assumma, un ‘nni faciti iri tutti a ‘nna bbanna, bisogna arrivare ai stagghi con il vascello dritto perché se no si fanno pieghe e i tonni possono scaricare; quando il quadrato era chiuso davo l’ordine: ammuscedda! e allora cominciava la mattanza con le aste e i corchi.

Alla fine, quando tutti i tonni erano sul vascello, davo l’ordine: Modda! e i tonnaroti slegavano i muscedda, il vascello veniva trasportato a terra dal rimorchio, a remi.

A volte tonni ne prendevamo tanti e tanto grossi, che il vascello non riusciva a entrare nel porto di Bonagia e si arenava, e lo dovevamo tirare da terra con le funi; quando la barca arrivava sotto il malfaraggio, c’era un portone solo, era tutto balatato, i tonni si buttavano a mare, e da terra sette, otto persone se li tiravano; i tonni poi li portavano nello stabilimento i massari, un pesce di 150/200 chili se lo portava un uomo solo, se invece era di 250/300 chili si mettevamo in tre, uno in mezzo e due alle estremità, con le “cinghiette”, e lo aisavano. Poi li incominciavano a scugghiare, i padroni si mettevano davanti e guardavano, si levava il lattume e a ventre e ‘u camparioto si li portava nella camparìa. Quando eravamo ‘nto centro pisca e arrivavano più tonni, i tagliatori si svegliavano verso l’una e mezzo le due della notte, e si sentivano le grida, i vuttara che dicìano “Ettalo!” c’era a chianca, il massaro ci portava il tonno sulla chianca, e tac tac, si sentiva il rumore dei coltelli, e quando si cuoceva dal fumaiolo usciva l’odore aspro dei tonni.

3 commenti:

Anna Righeblu ha detto...

Ciao Belva, complimenti per il blog...non sapevo ne avessi uno tutto tuo... Bello il titolo!
E molto interessante anche questo post.

Ciao, a presto

Belva ha detto...

Ciao Anna!!
Beh sì è nuovo....e grazie per il commento!!!
Ma quando ci rivediamo? Spero presto...la serata a Roma è stata piacevolissima!!

Anna Righeblu ha detto...

Grazie! Farebbe piacere anche a noi. Vedremo con kix, magari più in là ci sentiamo... Bagnoregio è stata un'occasione persa ma, chissà, forse ci torniamo...

Un abbraccio